IL LIMITE DI PROMETEO | riflessioni per un'etica della responsabilità a partire dalla Rivista "Psiche Arte e Società"

Jan Cossiers, Prometeo porta il fuoco, 1637

Parlare di responsabilità oggi può subito apparire come una vera noia. Limite a che cosa? Frenare la ricerca, il desiderio, il diritto a qualche cosa? Concetti ben poco alla moda, poiché oggi in effetti va forte il tema SUPERAMENTO DEI LIMITI, declinabile in diversi motti, come fosse un nuovo verbo divino che prende vita in uno spot pubblicitario. 

Sto leggendo "Appunti per una Etica del Limite" di Simonetta Putti, in "Psiche Arte e Società - Rivista semestrale del Centro Studi Psiche Arte e Società - Numero 5 - Anno III - Ottobre 2016", edito da Lithos, Roma. Nel contempo, rifletto.

Se per un individuo in età fanciullesca, o per la società occidentale tutta - definita perfettamente da Robert Bly - scrittore di ispirazione junghiana - come "società degli eterni adolescenti" - questo ideale può essere vitale, perché spinge alla trasgressione del divieto genitoriale, necessario per crescere e per differenziarsi, qualora esso diventi modello per una cronicizzazione dell'agire sempre e comunque a lungo termine nel senso del potere, della determinazione all'andare oltre, incontra per forza di cose il proprio opposto. 

Ed è enantiodromia.

Che cos’è l’enantiodromia? 
Jung prende in prestito il termine dalla filosofia di Eraclito e traccia per noi quel fenomeno secondo il quale, divenuta predominante e unilaterale una certa posizione psicologica nella coscienza di un individuo o nel collettivo, nell'inconscio inevitabilmente prende forma e assume forza la posizione diametralmente opposta. Enantiodromia si compone di “enantios” (opposto) e “dromos” (corsa) - andando a illuminare la direzione in una corsa nell’opposto. Gira la ruota e cambia la direzione. Si tratta di una compresenza contrapposta (tra conscio e inconscio) di direttive inconciliabili, non integrabili: questo movimento diviene man mano inibizione della coscienza e può procedere fino al passaggio completo nell’opposto (sul tema degli opposti: Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Torino 2002).

"La tecnica è di gran lunga più debole della necessità"
(Eschilo)


E allora ogni cosa rischia di fermarsi per cristallizzarsi nell'adorazione della divinità dell'orgoglio. Hybris eroica, prometeica vivacità e presunzione che termina la sua corsa incatenata alla roccia, costretta a farsi divorare il fegato da un rapace.

L'aveva ben capito quel geniaccio diciannovenne di Mary Shelley, intitolando il proprio capolavoro "Frankenstein, o il novello Prometeo". Se il testo nasce, in parte, dalla moderna paura delle possibilità tecnologiche, da una visione offuscata dal timore, possiamo dire oggi con cognizione di causa che una serie nutrita di dottor Victor hanno realizzato la profezia. Passano spesso inosservati, poiché esercito ben assortito nel contesto della contemporaneità, in accordo - egosintonici - con la coscienza collettiva.

Si può fare?
E allora, scusate, perché non dovremmo fare?  
Non lo diceva forse anche Sant'Agostino? 
"Supera te stesso, e supererai il mondo."


Si può trovare una mediazione prima che l'unilateralità ci porti alla trasformazione obbligata nell'opposto (l'enantiodromia di cui sopra)? Nel mondo contemporaneo vanno forti le pellicole e i libri che parlano della inevitabile sconfitta di questa umana voracità pronta ad inghiottire ogni confine per farne possibilità eterne. Da Ridley Scott a Gareth Edwards, i registi di film di fantascienza non ce la mandano a dire,  Esprimono chiaramente attraverso l'arte cinematografica ciò che i miti antichi hanno sempre dichiarato. Ogni volta che l'eroe del caso, determinatissimo a trovare di volta in volta la chiave per la vita eterna, la felicità permanente, la formula per superare la morte, la pozione per l'immortalità, il clone che continui a vivere dopo di lui, il risveglio dopo l'ibernazione, un lontano pianeta per ricominciare, beh, ecco...

il lieto fine viene a mancare.


"Un re aveva il suo regno, e poi è morto. Inevitabile."
(in "Prometheus")



Ma perché? Possiamo farci due domande, non credete? Continuare sulla strada della negazione di un senso nel passato dell'umanità, nella storia e nella saggezza non fa che portare l'ideale Puer in un'area sorda al Senex. Il nuovo e il vecchio, il progresso e la tradizione, il Sì e il No, il fare e il non fare debbono poter entrare in relazione e dialogare alla ricerca di un compromesso, pena - appunto - l'inevitabile e irreversibile perdita di coscienza, la distruzione della possibilità stessa.  

Si può fare? Un'ottima cosa, davvero. Possiamo pensare di farlo. Ne vale la pena? Sì? No? Possiamo anche, non dimentichiamolo, decidere di non agire, di non approfondire, di non ricercare - la possibilità è possibile ma non sempre auspicabile.

Teniamo presenti sempre entrambi i livelli, qui sotto elencati con un paio di esempi (chiedo scusa in anticipo per l'ironia):

Livello 1. "Pensi di avere un limite, così provi a toccare questo limite. Accade qualcosa. E immediatamente riesci a correre un po' più forte, grazie al potere della tua mente, alla tua determinazione, al tuo istinto e grazie all'esperienza. Puoi volare molto in alto." 
Ayrton Senna

Livello 2. "Attenzione, non salire più in alto di così, no, no, noooooo!"
(Dedalo a suo figlio) - ma anche "Prometeo, sei stato molto gentile verso gli uomini, ma ora siediti un momento e datti una calmata" (Atena, la dea). 


Chi ci può aiutare, o meglio che cosa? 
Possiamo chiamare sul palco la signorina Etica?

Simonetta Putti scrive:

"A differenza di chi afferma che di fronte alla tecnica l'etica celebra la propria impotenza (Galimberti U.  in Psiche e Techne. L'Uomo nell'età della Tecnica, Milano, Feltrinelli, 2000), credo, con Hans Jonas (Tecnica, medicina ed Etica, Einaudi, Torino, 1997), che

l'etica abbia qualcosa da dire nelle questioni della tecnica.

Poiché la tecnica è esercizio del potere umano, costituendo una forma dell'agire, e ogni agire umano è esposto ad un esame morale."

Simonetta Putti è analista junghiana e psicoterapeuta, socia dell'A.R.P.A., l'Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica) nonché della I.A.A.P., un'altra sigla che ai non addetti ai lavori potrà suonare come semplice assemblaggio di lettere ma che significa molto per chi come me si muove nell'area junghiana. Infatti, nel 2015 ho avuto il piacere di partecipare ad uno dei Congressi di questo gruppo - ovvero l'International Association for Analythical Psychology. A Roma si sono incontrati teorici e clinici provenienti da ogni parte del globo. C'erano psicoterapeuti israeliani e una palestinese, cinesi e canadesi, americani ed europei. Un calderone nel quale ho visto cuocere a fuoco lento l'argomento che ogni partecipante ha avuto modo di sviluppare precedentemente per poi mettere in comune dubbi e domande: la questione "attivismo analitico nel mondo contemporaneo". Non possiamo più stare chiusi in una stanza a operare con gli alambicchi per produrre il nostro oro. Dobbiamo aprirci inevitabilmente al vivere politico, senza perdere l'anima della nostra professione, senza svendere e senza svilire ciò che facciamo. Dobbiamo scrivere, Confrontarci per avviare, nella complessità, una rete che non tema il meticciato perché noi, psicoterapeuti e analisti, siamo comunque sereni nella nostra individualità e professionalità. L'equilibrio tra individuo e gruppo, tra identità e collettività è conditio sine qua non per la messa in gioco delle conoscenze. 

Con Simonetta Putti e Silvana Graziella Ceresa ci siamo permesse senza paura di mescere pensieri e concetti, conoscenze e competenze, scrivendo veramente, nel concreto senso del termine, un libro a sei mani. Non si può dire a tre mani perché scrivendo al computer si usano inevitabilmente tutte le dita, e ciò vale per mancini o destrorsi. Ci siamo alternate nel girare il mestolo dentro il Vas alchemico. Abbiamo scritto un testo a tre colori per poi trasformarlo in un unica veste da pubblicare a nome di tutte e tre. Posso definirla, simbolicamente, una piccola opera di maternità collettiva. Non a caso ci siamo occupate del tema "maternità surrogata" che di simbolico ha invece ben poco. 
Abbiamo deciso di proseguire nelle riflessioni ampliando il campo e avviando una discussione ricca di spunti con i colleghi Davide Favero e Stefano Candellieri - * - 

Poiché, come giustamente sottolinea Simonetta Putti citando Jonas - "i vomeri possono essere dannosi quanto le spade", noi "non dobbiamo considerare soltanto i rischi delle tecnologie aggressive ma anche di quelle volte a scopi pacifici", e di certo - per fare un altro esempio - abbiamo cominciato ad accorgerci di quanto possano far male al nostro corpo e alla mente tutta una serie di inquinanti chimici che sono stati tanto utili per rendere il mondo un luogo "paradisiaco", sopra il quale muoversi con velocità, pieno zeppo di carne allevata intensivamente e di frutta e di verdura cresciuta con prontezza. 

"Abele, il fratello buono - il pacifico reattore - continua a scaricare i suoi veleni per i secoli a venire." (Etica e Psicologia, pag. 24)

Dunque è arrivato il momento. Nemmeno la psicologia può tirarsi indietro. Non è una buona mossa per i professionisti del caso l'allearsi a posizioni "politicamente corrette" - come è accaduto per alcuni movimenti e gruppi professionali negli ultimi tempi, né l'aderire a modelli eccessivamente "Puer" e connessi con il progressismo. 

Invitiamo alla distanza e al confronto, allo scontro aperto ma rispettoso, perché solo nell'arte del tessere il filo può diventare disegno complesso. Quale futuro vogliamo? Cominciamo dunque a porci la domanda.

Theodoor Rombouts, Prometeo - 1597-1637

Che dire?
Metto su il caffè e continuo a leggere.
Buona giornata.

In questo numero della Rivista, oltre all'articolo di Simonetta Putti, si trovano i contributi di: Amedeo Caruso, Giorgio Mosconi, Roberto Cantatrione, Vincenzo Ampolo, Valentina Bonaccio, Miriam Bonamini e Arcangela Miceli, Luigi D'Elia, Vincenzo Leccese, Alessandra Ojetti, Amedeo Pingitore, Guido Traversa.


VBM 

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